di Andrea Bersellini
Dopo anni e anni che vivevo sprofondato sul comodo divano della mia esistenza, sentire la voce di Gekill propormi un malloppo di nuove barzelle è stata una specie di doccia fredda.
Tre volte - tre volte dico - l’ho dovuto mandare a Farincùlo prima che, mosso a pietà comunque dal raro grado di decerebratezza con cui avevo a che fare, accettassi perlomeno di leggere la robaccia che ora avete fra le mani. “Compagnia della Paletta”! Puah! Ora che vivo il mio mondo piccolo-borghese costruito a fatica, l’unica paletta che frequento è l’attrezzo atto a rimuovere le merde dei miei gatti o lo sporco sotto il tavolo… non posso che constatare con un sorriso maligno che, in effetti, un qualche collegamento c’è…
Ma chi scrive è messo appositamente qui a scrivere in quanto è uno dei pochi che, suo malgrado, ricordi che la paletta è un simbolo di morte presso il popolo dei camuni (antichi abitatori le terre di Val Camonica) e fu proprio dopo una gita in quella lande ricche di mele e speck che i due Guaroski e Gekill diedero la stura alla più pericolosa iniezione di idiozia che il mondo abbia conosciuto.
Nato come genere ermetico, per pochi eletti, genere recitato, per lo più e non letto, la barzella approda qui alla sua prima forma editoriale che si rispetti. Le prime erano schizzi, disegnini e appunti - elaborati durante le ore di lezione (!) - che venivano propinate, con corredo di urla da mattatoio e qualche mazzata, durante l’intervallo a chi avesse avuto il coraggio di avvicinarsi a quel capannello schiamazzante.
Gekill e Guaroski ne erano allora il fulcro ma come dimenticare gli altri che ne facevano parte? Come non citare almeno Ciccio, autore dell’unica barzella a lieto fine? [1]
La scena che un passante aveva sotto gli occhi era più o meno questa: alla luce di una della finestre del corridoio, Gekill, Guaroski e Ciccio si presentavano ognuno stringendo fra le mani un foglietto contenente il parto delle ore precedenti… uno dei tre cominciava a leggere con voce stentorea una vicenda senza senso di cui era protagonista la Morte (sì, con la “m” maiuscola, incappucciata di nero… quella lì…) che si concludeva immancabilmente con un urlo lancinante (stavolta la morte, con la minuscola, del protagonista della storia) seguito dalle risate degli altri due. Attorno, compagni di classe attoniti abbozzavano sorrisi di circostanza: certo non si può pretendere che un nuovo genere comico venga subito capito dai contemporanei.
Poco tempo dopo, la svolta: la Morte (maiuscola) si presentava all’edicola e tetra ingiungeva all’edicolante “voglio te!”, l’edicolante rispondeva che l’aveva finito ma sarebbe arrivato la settimana prossima, la morte lasciava un anticipo e se ne andava… oppure si presentava a una vecchia zitella chiedendo la stessa cosa e questa le serviva una tazza di tè (avvelenato).
Insomma, la piega esistenzialista era presa e i personaggi cominciavano a vivere una vita (piena di disavventure) propria. [2]
Era tempo di una nuova forma: la barzella registrata.
Non facciamo certo della dietrologia fine a se stessa, se affermiamo che la tormentata carriera scolastica dei due Guaroski e Gekill è dovuta, almeno in parte, all’ascolto pubblico della loro audiocassetta di barzelle sul pullman della gita successiva.
Come non ricordare la faccia basita dell’insegnante di lettere ascoltando quello sgocciolio che precedeva un “cche bbella pisciataaa” esclamato da Gekill? [3]
E come non ricordare il fremito d’empietà nel corpo docente quando si sentì: “Jeesus Christ, Suuperstar!” - “Sì, dimmi” - “No, niente, volevo dirti che…”?
Alla fine dell’anno Guaroski e Ciccio rimasero sul campo (scolastico, s’intende), Gekill se la cavò con ferite gravissime.
L’anno successivo conobbi Fauci.
Entrava nella nostra classe con fare terroristico, violando - lui che frequentava un’altra scuola - tutte le norme di sicurezza. Entrava, dicevo, urlava non so che, disegnava alla lavagna, e poi se ne andava con Gekill.
Era, ed è tuttora, un uomo d’altri tempi, con una sua eleganza innata che mal s’accocchia con la sciatteria di Gekill (egli infatti si veste, e si vestirà sempre, come alle medie) e un senso dell’onore eccessivo per quest’epoca: come poi sia finito a riunirsi con gli altri due è un ulteriore mistero delle barzelle.
Lo stesso anno, Guaroski aveva trovato il modo di mettere a frutto la sua potenza vocale (era infatti dei tre il migliore urlatore e ammazzatore) divenendo il cantante dei “Venerdì 13”: fu una breve parentesi, che tuttavia lo allontanò per un po’ dalle barzelle.
Credo che ci sia un autunno in tutte le cose, al quale inevitabilmente segue un inverno: la morte apparente che questa stagione comporta è in realtà il tempo necessario al seme per divenire frutto. Col seme tuttavia dorme anche la gramigna.
Come una pianta infestante, dieci anni dopo quel primo stop, ecco di nuovo rispuntare le barzelle.
Le vicissitudini della vita hanno segnato i tre: Gekill si ritrova con i capelli ancora lunghi e una laurea pressoché inutile, Guaroski è rovinato dall’abuso di limoncino e Fauci espone con dovizia di particolari avventure sessuali che conservano ormai il calore di fiamma lontana. I tre si ritrovano - con qualche superalcolico - e producono su di un quadernetto la monnezza che avete fra le mani.
E io?
Arriviamo allora a quella telefonata: Gekill mi chiedeva di illustrare la vecchia serie di barzelle, che erano per lo più disegnate su quei foglietti consumati che si diceva sopra. Perché lo chiedesse a me è presto detto: egli crede che io sia un disegnatore da quella volta che mi vide tracciare una cippa di cazzo su non so che muro e, cosa più importante, di solito lavoro gratis.
Fu proprio questo il problema: in quel momento avevo tre lavori sottopagati più un quarto completamente gratuito. Mandai Gekill dove sapete da pag.1.
Tutto questo non scoraggiò i tre, anzi: non potendo fare affidamento sulle barzelle illustrate, si misero sotto a produrne di nuove, gran parte delle quali sono nell’ultima sezione.
Ecco perché, dunque, ho accettato di scrivere queste righe: per chiedere scusa a voi se ho contribuito ad una ulteriore produzione di queste cagate. Non credevo certo che la risposta dei tre sarebbe stato un ennesimo parto di barzelle: avevo trascurato il detto zen del maestro Fu-tchu-nan “il cavallo non ti risponde non perché l’hai offeso, ma perché è una bestia”.
Come tutti i detti zen, c’è da rifletterci.
Buona lettura.
Andrea Tarazni
[1] In primo piano passa un topo ENORME: “Eh, ve’ che razza di ponga (pantegana, n.d.r.)! Le manca solo la parola!” Il topo girandosi: “Dici?”. Vivo, ricco, ha scoperto la Ponga Parlante.[2] Anche una non-vita: di questo periodo ricordiamo “la macchina”, un misterioso aggeggio latore di morte che si affacciava alla fine di ogni storiella al grido di “LA MACCHINAAAAAAAAAA!” (risate degli astanti).[3] I tre (in questa prima fase parliamo sempre di Gekill, Guaroski e Ciccio) si registravano a turno in disparte facendo ascoltare poi il prodotto agli altri due; il buon Gek ebbe l’idea di registrarsi al cesso e di mingere nel frattempo.